La storia a puntate del giovane americano - diventato Papa in conseguenza del rincoglionimento dei cardinali (si saranno confusi con le schede) o lo Spirito Santo era in vena di scherzi - mi era sfuggita quando l’hanno mandata in televisione.
Comunque non sarei riuscito a seguire tutte le puntate perché non è nelle mie possibilità psichiche mantenere un appuntamento televisivo.
La giornata ha ventiquattro ore e non si può passare interamente davanti al televisore.
Mi ha fatto, dunque, piacere trovare il cofanetto dei quattro DVD di questa serie che m’incuriosisce da quando ne ho sentito parlare, anche se non sono un fan di Sorrentino, soprattutto dopo “Youth”, che non mi sembra un film evocatore di giovinezza.
Approfittando delle nevicate che sconsigliavano di mettere il naso fuori della porta, mi sono disteso nella poltrona preferita, l’unica, e ho fatto partire il lettore di DVD per vedere questa serie parecchio tempo dopo la sua prima uscita.
Le strade coperte di neve e il gelo mi hanno fatto completare la visione in due, tre giorni: una faticaccia - ma quando incomincio una cosa mi piace portarla a termine.
A dire il vero, ciò che più mi è piaciuto di questa serie è stato il “making of”.
Come in molti cofanetti, con l’ultimo DVD si può accedere agli extra e fra questi c’è il “making of”, un vero e proprio film-documentario nel quale ci sono interventi del regista, del produttore, degli attori principali e dei principali collaboratori, si vedono a volo alcune scene con inquadrati i carrelli, la troupe e il regista che dice “azione” e “stop”.
Sono cose, naturalmente, molto costruite, ma in questo caso viene mostrato come sono state realizzate le location - imponenti e irraggiungibili i luoghi veri - dove si svolge il film, in che modo i progettisti, i tecnici e gli operai hanno lavorato per ricostruire in studio, credo nella mitica Cinecittà, la Cappella Sistina, lo studio del papa, la finestra su piazza San Pietro, ecc.
Bellissimo. Richiamava alla memoria Fellini al lavoro; mancavano solo la sciarpa e il cappello a larghe tese, ma c’erano i basettoni e il sigaro di Sorrentino, che si avvia a diventare l'icona di se stesso, un'icona vivente.
Ora mi verrebbe una cattiveria: il making of mi è piaciuto più del film - ma sarebbe solo in parte vero.
Certamente non è uno di quei film o di quelle serie che ti tengono attaccato allo schermo.
Non posso farci niente, a me piacciono i libri e i film che mi catturano.
L’ultimo libro, dei recenti, che mi ha catturato (escludiamo i classici) è stato “Il Regno” di Emmanuel Carrère; dopo: letture per dovere, per curiosità, per tenersi informati, per abitudine, mai più un sequestro di persona con sindrome di Stoccolma.
L’ultimo film: il meraviglioso “The Shape of Water” di Guillermo del Toro.
L’ultima serie televisiva: “The Sopranos”, naturalmente acquisita con il cofanetto. Con le serie sono abbastanza arretrato, ma non apprezzo la tendenza attuale ad imporci queste lunghe e defatiganti maratone televisive, o altrettanto defatiganti appuntamenti settimanali. Se una storia mi cattura non voglio aspettare per sapere come va avanti.
Mi piace il cinema al cinema, che in un’ora e mezzo costringe il regista a dire tutto ciò che aveva da dire.
Ben vengano i tagli, la sottrazione di scene ben girate ma di cui il film può fare a meno, la costrizione alla sintesi.
Immagino l’essere anfibio creato da Guillermo del Toro spalmato su una serie di dieci puntate. Che noia! Alla fine avrei odiato anche le lucertole, che sono rettili, lo so, e non anfibi, ma hanno anch’esse la pelle squamata.
Nelle serie ogni scena si allunga, molte situazioni si ripetono, si gira molto, non si sacrifica nulla, si monta come se lo spettatore fosse un po' tonto.
Questo è successo con la serie televisiva di Sorrentino.
Dopo le prime puntate non si sopportano più il papa giovane e mai cresciuto, i vecchi che scommettono sull'aldilà, ma intanto, mentre sono al di qua, vogliono solo soldi, promozioni e potere; il mellifluo cardinale Segretario di Stato, incantato davanti alla Venere di Willendorf (Venere per modo di dire), innamorato, forse ricambiato, di suor Mary (si è vista anche la mano che cerca tremando l’altra mano), in colloquio quotidiano con un ragazzo handicappato, allo scopo, dichiarato, di scontare in anticipo le iniquità e nefandezze che il suo lavoro (lui stesso in più occasioni parla di lavoro), lo costringe a fare. È un lavoraccio, si sa, qualcuno lo deve pur fare.
Nessuna partecipazione: quando il giovane papa, in una delle ultime puntate, è scoppiato in un pianto liberatore, io cenavo tranquillamente, indifferente, e dicevo tra me e me: finalmente ha smesso quell’aria strafottente stampata sul volto inutilmente bello (qui agisce l’invidia, bisogna compatire).
Alcune scene sono molto belle.
La camminata del papa sui titoli di testa lungo il corridoio di un museo, mentre, sui quadri esposti, dalla stella cometa si forma il meteorite che alla fine colpisce la statua di papa Wojtyla - completa, si potrebbe dire, con una punta di ironia, la scultura “La nona ora” di Maurizio Cattelan.
Bella la scena in cui tutti i papi che hanno preceduto Lenny sul soglio pontificio girano per le stanze come in casa propria; papa Giovanni, con la sua bell’aria di curato di campagna, apre la porta, entra, la chiude alle sue spalle e poi, tutti insieme, riuniti intorno a un tavolo, guardano fisso Lenny; uno di loro, forse Giulio II (Raffaello Sanzio), dopo avere alzato la mano come un bambino a scuola (fa tenerezza), rispondendo a una domanda di Lenny, dice ("caro collega ...") che il papa deve credere più in se stesso che in Dio; poi ci pensa un po' su e ammette che si tratta di una banalità, aggiungendo che spesso i luoghi comuni sono veri e il potere è una banalità.
Mah! (soprattutto riferito a “collega”).
Bello il personaggio di suor Mary.
Diane Keaton in pigiama con la scritta “I am a virgin” sul petto ci ricorda la ragazza minuta e spiritosa, affascinante, dei primi film di Woody Allen; all’inizio sembra la solita mamma che vuole manipolare il figlio, intenzionata a lavorare dietro le quinte e a diventare la vera papessa, poi, invece, comprende la necessità di farsi da parte per consentire al giovane papa ferito nel profondo di crescere e di separarsi da lei, e non usa l’arma del ricatto affettivo (come, per un momento, abbiamo temuto). Si allontana tranquillamente per fare il lavoro che la realizza, prendendo il posto di una megera che il santo, giustamente, ha fatto soffocare in combutta con Dio (ce ne fossero di santi che fanno morire soffocata la gente come quella!).
Sorrentino deve avere un forte senso religioso (è certo, dato che ha una forte fede calcistica, come dice qualcuno nel film, non mi ricordo chi, forse Voiello) o, comunque, probabilmente crede che un’istituzione antica e potente come la Chiesa debba per forza corrispondere a qualcosa di soprannaturale.
Infatti il suo Pio XIII dialoga realmente con Dio, è realmente un santo, anche se capriccioso e non buono, anzi spietato o indifferente alla sorte dei suoi sottoposti, alle loro sofferenze, come, forse, se esiste, è indifferente Dio.
Questo lungo, troppo lungo, film, si potrebbe vedere come la storia di un orfano che non ha mai superato il trauma dell’abbandono, che oscilla tra aggressività e tenerezza (fa pena quando si prende cura del bambino che ha contribuito a far nascere, gli cambia i pannolini, rendendosi insopportabile ai genitori).
All’inizio mi ha ricordato Alfred Hitchcock e il suo “The birds”, “Gli uccelli”.
Anche in quel film ci sono uccellacci neri svolazzanti e arrabbiati, proprio come, nel film di Sorrentino, tutti quei preti, suore e cardinali non svolazzanti ma sempre appollaiati dietro una statua, dietro una colonna, a spiare qualcuno, neri e arrabbiati come gli uccelli di Hitchcock.
Si nascondono come i bambini che giocano a nascondino, e noi dobbiamo credere che nessuno li veda.
Addolciscono il paesaggio le suorine bianche impegnate al lavatoio e la suora campionessa di calcio (la Boldrini direbbe campiona? Spero di no), autrice di un tiro smarcante che neanche Maradona.
Anche nel film di Hitchcock c’è un personaggio, una ragazza ricca e snob, che può fare quello che vuole senza dare conto a nessuno, proprio come il giovane papa capriccioso, che rifiuta una ricca colazione per aspettare una Coca-Cola cherry zero (facciamo pure la pubblicità, ma con un po' di stile, e non tiriamo sempre l'acqua al mulino delle multinazionali del diabete!).
L’horror nel film di Hitchcock è innestato da un comportamento anomalo degli uccelli, che diventano sempre più aggressivi in un posto bellissimo e accogliente, dove vive gente tranquilla, cordiale e simpatica. L’horror viene costruito pian piano (la cosiddetta suspense) con l’accumularsi dei segni di qualcosa di inspiegabile e pauroso, segni che si moltiplicano fino al parossismo.
Nel film di Sorrentino la tensione parte troppo velocemente, con gli uccellacci che parlano tra loro come fossero i componenti di una banda di camorristi, si raccontano le cose più segrete, le manovre di potere, in modo non allusivo ma esplicito, senza nessuna cautela: “voi africani siete ingenui, credete veramente che lo spirito santo scelga il papa”, “il nome dello spirito santo è Voiello”, “Voiello è il demonio incarnato”, ecc..
Ci aspettiamo il peggio, l’assalto finale (troppo presto). La tensione è al massimo, ma appare Voiello e l’uccellaccio diventa un uccellino paffuto, un po’ sfigato, con il fedele servitore e spia che ha la stessa faccia e la stessa voce di Johnny Dorelli (è il figlio) e la stessa aria distaccata, ironica; ci tranquillizziamo: nessun assalto finale, l’horror è finito prima di cominciare.
Il Segretario di Stato della Santa Sede si confessa senza interrompere i suoi calcoli sulla calcolatrice (segue la grande finanza come una massaia al mercato) e, senza neanche aspettare la conclusione del rito e l’assoluzione, di cui pare non potersene fregare di meno, va ad affrontare problemi più importanti, lasciando il confessore nel dubbio su come possa essere considerata in confessionale l’attrazione per la statuetta di una donna vissuta venticinquemila anni fa (sempre la famosa Venere, diciamo così, di Willendorf) .
Sorrentino non è un regista che costruisce la suspense attraverso il racconto, anzi non se ne importa, come Voiello dell’assoluzione. Gli piace caricare lo schermo di simboli e sogni che richiederebbero l’astrologo per essere interpretati (battuta rubata a Gigi Proietti, che si riferiva ai suoi inizi nel teatro sperimentale) e il passaggio dalla realtà al sogno e viceversa avviene senza interruzione di continuità, per cui lo spettatore rimane spiazzato.
Come nei sogni, dall’incubo si passa come niente al comico, quando il papa giovane - vestito come i papi si vestivano una volta, con un copricapo che lo costringe a sporgere la testa in modo innaturale e a fare strane smorfie, assiso su una sedia gestatoria d'antan, dopo aver fatto un discorso che solo un dittatore asiatico in possesso di bomba nucleare può fare (totale chiusura al mondo e alla realtà) - convince i cardinali (che, se davvero accadesse, non esiterebbero a chiamare gli infermieri di una casa di cura) a baciargli il piedino impantofolato, vezzosamente sporto, invogliando il Segretario di Stato, un po’ restio, con un gesto deciso della mano a compiere quest'atto di sottomissione.
La battuta più divertente di questa parte comica è quella che il cardinale Voiello rivolge a Tonino Péttola (questo è l’accento giusto, perché trattasi di parola in dialetto napoletano che indica un lembo di camicia, eventualmente sporgente dai pantaloni, la cosiddetta péttola di fuori):
“Tonino Péttola, il motivo di questa visita è che tu … ‘e rutt’ ‘o cazz’”.
Sostituendo Young Pope a Tonino Péttola, la scena farebbe ridere di più e corrisponderebbe esattamente a questo momento e a molti momenti successivi della serie.
POST SCRIPTUM
Siccome sono fissato con il problema di come si rendono le lingue straniere nei film (abolirei il doppiaggio, solo sottotitoli) sono andato a rivedere il primo episodio nella versione originale, che, in un film internazionale, è la versione in lingua inglese.
Ho scoperto che Silvio Orlando non è doppiato, ma parla in inglese, giustamente con accento italiano, anzi napoletano, ma va benissimo, l’accento è perfettamente corrispondente al personaggio. “Ho scoperto” è una forma retorica, perché se ne era parlato a suo tempo. Bene.
Il papa, nei colloqui interpersonali, parla in inglese. È normale, trattandosi di un papa americano, ed è il motivo per cui Silvio Orlando ha imparato a pronunciare le sue battute in inglese, perché ha molti colloqui con il papa.
Arriviamo al discorso del papa alla folla radunata in piazza San Pietro.
Non so se la versione del DVD sia quella che è arrivata al pubblico di mezzo mondo; se è così, il papa parla alla folla come un attore shakespeariano recita Hamlet e (miracolo!) la folla capisce.
Fa un po’ effetto questa folla, soprattutto di romani, che capisce perfettamente la lingua del papa, che non si è impegnato minimamente a farsi capire, come se San Pietro si fosse trasferito (il santo e la Basilica, con tutta la piazza) a Londra o a New York.
Non si poteva chiedere a Jude Law che, peraltro, in un’occasione parla in spagnolo con un cardinale sudamericano, di imparare il discorso, solo il discorso che rivolge alla folla in piazza San Pietro, e quello finale in piazza San Marco, nella lingua parlata del posto?
Sarebbe venuto fuori un accento a tratti anche un po’ ridicolo (come il “voi mi corrigerete” di papa Wojtyla), ma simpatico, e avrebbe reso più realistica e coinvolgente la situazione, anche per un pubblico internazionale, aiutato a capire con i sottotitoli.
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