Ho visto questo film in un piccolo cinema: Cinecittà, in via Pisana a Firenze. Piccolo, ma glorioso, se si pensa che questa sala ha aperto nel 1947, è una delle più antiche di Firenze.
La sala ha sede presso la Casa del Popolo F.lli Taddei e fa parte del circolo Arci.
Casa del Popolo Fratelli Taddei.
Solo a leggere questa targa si apre tutta una scenografia: già prima di entrare in sala, nella memoria parte un film, in cui si vedono incontri quotidiani, a tutte le ore, di operai, professori, studenti (di ambo i sessi), casalinghe; si parla di politica, di calcio, del Giro d'Italia o del Tour de France, dei problemi della fabbrica, della scuola, della vita; si prepara la Festa dell'Unità; i pensionati ci vanno per passare un po’ di tempo, per sentirsi utili, per incontrarsi tra di loro, per giocare a bocce (ora li vedi in contemplazione degli operai della ditta che ripara le fognature); i ragazzini giocano a bigliardino, si scambiano l'Intrepido o le strisce di Black macigno e di Capitan Michi. La Casa del Popolo, soprattutto nelle "Regioni rosse", era il posto nel quale il "popolo di sinistra" (comunista e socialista) svolgeva gran parte della propria vita sociale.
Di Nanni Moretti credo sia uno degli ultimi ricordi cinematografici di uno scambio di opinioni molto forte, emotivamente molto sentito, fra i militanti del partito comunista.
Si tratta di “La cosa”, 1990: interventi dei militanti sulla proposta del segretario Achille Occhetto (Carneade, chi era costui?) di cambiare nome al partito.
Inquadratura fissa, pochi tagli; si poteva assistere quasi in tempo reale (questa era la sensazione dello spettatore) alla discussione che si era svolta nelle sedi del partito comunista, a volte, credo, nelle Case del Popolo.
Non so se il dibattito su “Ladri di biciclette” in “C’eravamo tanto amati” (Ettore Scola) a Nocera inferiore (“Inferiore perché ha dato i natali a gente come voi” dice il professor Nicola Palumbo, interpretato dal grande Stefano Satta Flores), si svolga dentro i locali di una Casa del Popolo. Non mi pare, sembra si tratti di una scuola. Ma è un cineforum, roba che piaceva soprattutto a sinistra e, alla fine della proiezione, il direttore della scuola ripete il giudizio sprezzante che Andreotti aveva dato sul film di De Sica, provocando la reazione definitiva del professor Palumbo e la sua decisione di trasferirsi da Nocera inferiore a Roma. Considerando che al dibattito partecipano anche i “nemici” del professor Palumbo, credo proprio non si trattasse di una Casa del Popolo.
È certamente in una sede siciliana del PCI, o in una Casa del Popolo, che, in “Divorzio all’italiana” (Pietro Germi), il conduttore del dibattito chiede un giudizio sulla signora Cefalù che ha abbandonato il marito Fefè, il grande Marcello Mastroianni (vi sono dei nomi a cui si dovrebbe sempre far precedere l’aggettivo “grande”) e un “compagno” contadino, che ascolta, tra gli altri, con la coppola calcata sulla testa, sbotta inferocito: “Bottana!”, lasciando di stucco il conduttore settentrionale del dibattito che, nel porre la questione, aveva fatto riferimento all’emancipazione della donna come era stata raggiunta, a suo dire, dai compagni cinesi. Evidentemente la separazione tra filosovietici e filocinesi non era ancora avvenuta e, se pensiamo che attualmente la Cina sedicente comunista è uno dei paesi dove le lavoratrici sono più sfruttate, ci rendiamo conto delle assurdità che i dirigenti ci propinavano a quei tempi. Dopo un po’ avrebbero cominciato a circolare i maoisti. Che fine avranno fatto? Immagino come conservano con nostalgia il libretto rosso, nascosto per non essere presi in giro dai nipoti (“Nonno, ma veramente credevi in quegli slogan? Eravate proprio ingenui a quell’epoca!”).
L’altro nome che richiama subito alla memoria un clima, un periodo storico, è Arci (il cinema Cinecittà si trova nella sede dell’Arci).
Ricordo spettacoli teatrali impegnativi che, negli anni settanta, riuscivamo a vedere, noi studenti con pochi soldi, perché l’Arci li portava nelle piccole sale sparse per la penisola.
I cineforum, che non erano quelle torture descritte da Paolo Villaggio, ma occasioni per scambiarsi opinioni su film che hanno fatto la storia del cinema e per cercare di capire un po’ di più su registi difficili, come Ingmar Bergman, o su un capolavoro come “La corazzata Potëmkin” (noi dicevamo potiompkin, chissà se era giusto!) di Ėizenštein, che può essere definito “una cagata pazzesca” solo in chiave comica, solo da Fantozzi.
Una sala piccola, dicevo, una sala all’antica, questo cinema Cinecittà in via Pisana, una lunga strada che, partendo da Scandicci e attraversando la periferia, arriva al Borgo San Frediano, con le sue tante trattorie, osterie e negozi di artigiani e restauratori: il centro antico di Firenze “diladdarno” (oltrarno: sulla riva sinistra dell’Arno) poco visitato dai turisti.
“Come un gatto in tangenziale”. Il regista è Riccardo Milani, che proprio non conoscevo, tranne per avere evitato, qualche anno fa, un suo film su uno che per caso viene eletto Presidente della Repubblica. Un film con una trama così non lo vedrei neanche se mi pagassero.
È vero che bisogna prima vedere e poi giudicare, ma ci sono dei limiti e il tempo, soprattutto dello svago, è troppo prezioso per buttarlo in un'impresa disperata.
Però, vale sempre il discorso di dare una chance ..., così sono andato a vedere questo film di Riccardo Milani e non me ne sono pentito.
Un bel film, divertente, che dimostra come i bravi attori siano capaci di trasformarsi e di non portarsi dietro i personaggi che hanno dato loro maggiore successo.
Mi riferisco, per esempio, ad Antonio Albanese, che in questo film svolge un ruolo che potrebbe richiamare facilmente il “pilu per tutti”: fa dei discorsi in una commissione del Parlamento Europeo, lavora in un gruppo di think tank (una tanica di pensatori), è seguito da portaborse che sono sempre a sua disposizione, eppure riesce a far dimenticare quel personaggio grossolano per incarnarne uno completamente diverso: raffinato, educato, tollerante, eccessivamente remissivo, nei confronti della figlia, nei confronti della moglie, nei confronti della madre del ragazzino di cui la figlia è innamorata, nei confronti di tutti (il meccanico lo guarda, giustamente, con aria di compatimento: “poràccio”, pensa e ce lo fa capire con lo sguardo).
Paola Cortellesi interpreta perfettamente la coatta coperta di tatuaggi, che non si priva dei suoi tacchi altissimi neanche sulla spiaggia ed è pronta a impugnare la mazza da baseball per difendersi attaccando in anticipo, indifferente ai danni che può provocare.
Il personaggio negativo del film sono due: la mamma e la figlia.
La mamma è una fuori dal mondo. Prima dell’impatto con la realtà, quando va nella "tana del lupo", ricorda Enrico Montesano truccato da turista inglese scimunita che ammirava tutto dell’Italia e, di fronte a qualsiasi bruttura, ripeteva: “Molto pittoresco”.
È fuori dal mondo per una questione caratteriale, non perché si occupa di essenze estratte dai fiori di erbe aromatiche, come sembra volerci suggerire il film.
Sappiamo che Giovanna Zucconi, giornalista e conduttrice di programmi culturali, ha deciso di occuparsi dei profumi estratti dalle erbe e ha avviato, insieme al marito Michele Serra, un’attività molto promettente con il marchio Serra&Fonseca, per cui chi si occupa di questo settore non è necessariamente sfalsato rispetto alla realtà.
Però! Non ci avevo pensato. Potrebbe esserci un riferimento malizioso a una sinistra che scrive articoli politicamente corretti, teoricamente impegnati, e negli ultimi tempi è approdata ai profumi.
Chi pensa male ... (sempre il solito Andreotti).
L’impatto con la realtà di questa libellula vaporosa, che sembra abituata a vivere su un altro pianeta, crea, nel film, i momenti di maggiore comicità.
La figlia è più realistica: tipico esempio di ragazzina viziata, capace di manipolare il padre remissivo per chiedere e ottenere continuamente denaro senza mai tenere conto della sua opinione, di manipolare la madre che non capisce niente, di mettersi a frignare, o accennare il suo dispiacere e la lacrimuccia se appena il padre si permette di fare un’obiezione a una sua richiesta assurda.
È prontissima a rinfacciare ai genitori i buoni sentimenti che le hanno insegnato, dei quali ha colto e acquisito solo l’ipocrisia, tanto è vero che, dopo essersi passata lo sfizio dell’amoretto con un coetaneo agghindato da guerriero indiano, ritorna al suo ambiente, alla spiaggia di Capalbio e ai rampolli della classe sociale a cui appartiene. Il rapporto con il ragazzino e con l’ambiente del quartiere Bastogi dura come un gatto in tangenziale.
Naturalmente il film è assurdo, ma va bene così, è un film comico e il regista non deve preoccuparsi di rendere realistiche le situazioni. Basta che non voglia ricavarne una morale o lanciare un messaggio, naturalmente populista, che l'altro film, quello del presidente per caso, faceva temere molto probabile, anzi inevitabile.
Nella realtà uno che si avvicina con atteggiamento così ingenuo a un mondo difficile e pericoloso ne esce sicuramente con le ossa rotte.
Trattandosi di un film comico mancano, giustamente, le ossa rotte (Stanlio e Ollio si picchiano continuamente, ma non si fanno male), anche se c’è un personaggio, interpretato da Claudio Amendola, specializzato nell’estrazione della milza con le forbici da barbiere.
Fa ridere, questo conta. Posso testimoniare che gli spettatori della piccola sala dell’Arci ridevano, a cominciare dal sottoscritto, perché le battute non sono scontate, perché gli attori sono bravi e i personaggi divertenti (veramente esilaranti le due gemelle).
C’è un delizioso cameo di Franca Leosini, che si conferma persona garbata, ma anche molto spiritosa.
Se vogliamo approfittare di questo film, en passant, per dire qualcosa sui rapporti fra ragazzi di “ceto sociale” diverso, possiamo osservare che sono più le cose che li accomunano di quelle che li separano (sono i genitori a vivere in compartimenti non comunicanti tra loro).
Per esempio hanno in comune il controllo assoluto degli adulti, che si rigirano come gli pare. Non c’è nessun adulto, né nelle famiglie cosiddette bene, né in quelle che si arrangiano per tirare avanti, che sia in grado di dire una sola volta: “Questo non si fa”. Perché? “Perché è pericoloso. Punto”.
A tredici anni sono in procinto di trasformarsi negli “sdraiati” di Michele Serra, fingono di ascoltare, ma poi fanno quello che vogliono; dopo abbandonano anche questa finzione: mettono le cuffie nelle orecchie e interrompono la comunicazione.
Cominciano molto presto a vivere come in un mondo a parte, separato da quello degli adulti, un mondo da cui guardano con curiosità quegli strani fantocci pieni di sensi di colpa che si agitano intorno a loro, da cui sanno di non poter imparare nulla della vita e del modo giusto di entrarci.
Anche dal punto di vista della sicurezza non c’è molta differenza fra i diversi ambienti; molto divertente che nel film i due ragazzi subiscano un furto quando vanno alla festa della figlia del commercialista, divertente ma non lontano dalla realtà.
Naturalmente è una trovata comica il fatto che il personaggio della Cortellesi preferisca la spiaggia del morto, o come si chiama, a Capalbio. Non credo ci voglia molto per capire la differenza tra una discarica a cielo aperto sulla spiaggia e un’oasi di pace e puoi essere coatto quanto vuoi, ma capisci a volo che fare la fila per comprare un gelato in mezzo a una folla urlante e sudata è peggio che partecipare a un party con i camerieri che ti servono (come direbbe il compianto Catalano).
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